20 agosto 2020

From COVID-19 to the explosion in Beirut: why we believe fake news

2020 will certainly be remembered as one of the most disastrous years of recent decades: from the crisis between the US and Iran, to the wild fires in Australia, to the COVID-19 pandemic and the explosion at the port of Beirut. As these events unfold around us the world is getting more and more connected, news travels faster than light and immediately after the frightening explosion that occurred on the 4th of August in the Lebanese capital, videos of that terrible event spread around the planet and in less than a minute the images of the disaster were visible in the four corners of the globe.

While correct information reaches users in an increasingly rapid and widespread way, fake news also multiplies at the same speed. Often it is created by real disinformation industries (such as the Internet Research Agency in St. Petersburg), but aside from the reasons why it is created it is surprising that it has so much following and that readers are literally at the mercy of professional fake news developers.

Actually there are at least three emotional reasons why fake news has so much success and which also confirm how the alleged rationality of the human being is often widely overestimated.


Confirmation bias


We are all victim of our own confirmation bias. That means that when we scroll through the news on the homepage of a newspaper or on a social network we are more attracted by the pieces that confirm our vision of the world, to the point that we may not see at all those who oppose it. For example, if we do not trust government institutions we will end up believing more easily the theories according to which governments hide the truth from us, therefore we will think that the SARS-Cov2 virus was not born in nature, but escaped from a laboratory, or that the explosion Beirut was an attack ordered by some foreign government (usually the US and Israel are the main targets of alternative theories).


Conspiracy theories offer quick answers


When we are emotionally affected by an event (even if only because we see it on TV, without being actually present) human nature pushes us to want to know in the shortest possible time why and how the event that hit us occurred, because knowing it relieves the discomfort. And while under stress we usually produce negative thoughts. This causes quick explanations that give an answer to "Why did this happen?" to be accepted and conspiracy theories usually arrive long before official explanations, because investigations take months and even years.

Therefore rather than believing that we do not yet know which animal acted as a link between bat and man, we prefer a complete explanation such as that that it is a biological weapon. Similarly, rather than accepting that we do not know what material exploded at the port of Beirut and how it was triggered, we prefer to accept a full, even if potentially wrong, explanation: such as it was material seized from Hamas or that it was a military or terrorist attack on Beirut disguised as something different.


Conspiracy theories bring order to chaos


The human mind does not like chaos, and prefers order. Thinking that the explosion in Beirut or the COVID-19 pandemic were events that happened by chance, and that more precise controls would have been enough to prevent them clashes with the scale of the disaster they caused. We prefer to believe that there is a conspiratorial design behind it and that everything was planned. This phenomenon is particularly evident in the cases of the premature deaths of stars of music, cinema and sports. We have a hard time believing that a lonely madman killed John Lennon, we hardly believe that stress and pressure led to Kurt Cobain to shoot himself. We prefer to believe that the world is orderly and that there is a conspiracy behind it all.

5 agosto 2020

Dal COVID-19 all'esplosione a Beirut: perché crediamo alle fake news

Il 2020 verrà sicuramente ricordato come uno degli anni più ricchi di eventi nefasti degli ultimi decenni: dalla crisi tra USA e Iran, agli incendi in Australia fino alla pandemia da COVID-19 e all'esplosione al porto di Beirut. Mentre questi eventi si svolgono attorno a noi il mondo è sempre più connesso, le notizie viaggiano più veloce della luce e subito dopo la spaventosa esplosione avvenuta il 4 agosto nella capitale libanese i video di quel terribile evento hanno fatto il giro del pianeta e in meno di un minuto le immagini del disastro erano visibili ai quattro angoli del globo.


Mentre le informazioni corrette raggiungono i fruitori in modo sempre più rapido e capillare, anche le fake news si moltiplicano alla stessa velocità. Spesso vengono create da vere e proprie industrie della disinformazione (come la Internet Research Agency di San Pietroburgo), ma a parte il motivo per cui vengono create stupisce il fatto che abbiano così tanto seguito e che i lettori siano letteralmente in balia di bufalari professionisti.

In realtà esistono almeno tre motivi di carattere emotivo per cui le fake news hanno così tanta presa e confermano anche come la presunta razionalità dell'essere umano è spesso ampiamente sopravvalutata.


Il confirmation bias


Ciascuno di noi è vittima del proprio bias di conferma. Ovvero quando scorriamo le notizie sull'homepage di un giornale o su un social network siamo più attratti da quelle che confermano la nostra visione del mondo, fino al punto che quelle opposte potremmo non vederle del tutto. Ad esempio se non abbiamo fiducia nelle istituzioni governative finiremo per credere più facilmente alle teorie secondo cui i governi ci nascondono la verità, penseremo quindi che il virus SARS-Cov2 non si nato in natura, ma sfuggito da un laboratorio, o che l'esplosione di Beirut sia stata un attacco ordinato da qualche governo estero (di solito USA e Israele sono i principali bersagli delle teorie alternative).


Le teorie del complotto offrono risposte rapide


Quando siamo colpiti emotivamente da un evento (anche solo perché lo vediamo in TV, senza essere presenti) la natura umana ci porta a volere sapere nel più breve tempo possibile perché e come l'evento che ci ha colpito si è verificato, perché saperlo allevia il disagio. E di solito sotto stress produciamo pensieri negativi. Questo fa sì che si accettino delle spiegazioni rapide che diano una risposta al "Perché è successo?" e di solito le teorie del complotto arrivano molto prima delle spiegazioni ufficiali, perché le indagini richiedono mesi e a volte anni.

Pertanto piuttosto che credere che non sappiamo ancora quale animale abbia fatto da tramite tra il pipistrello e l'uomo, preferiamo una spiegazione completa come quella secondo cui si tratta di un'arma biologica. Allo stesso modo, piuttosto che accettare che non sappiamo quale materiale sia esploso al porto di Beirut e come si sia innescato, preferiamo accettare una spiegazione completa anche se potenzialmente sbagliata: come quella che si tratti di materiale sequestrato ad Hamas o che si sia trattato di un attacco militare o di un attentato.


Le teorie del complotto mettono ordine nel caos


La mente umana non ama il caos, e preferisce l'ordine. Pensare che l'esplosione a Beirut o la pandemia da COVID-19 siano stati eventi capitati per caso, e che sarebbe bastato qualche controllo più preciso per evitarli stride con la portata del disastro che hanno causato. Preferiamo credere che ci sia dietro un disegno cospiratorio e che il tutto sia stato pianificato. Questo fenomeno è particolarmente evidente nei casi delle morti premature dei divi della musica, del cinema e dello sport. Facciamo fatica a credere che un pazzo solitario abbia ucciso John Lennon, facciamo fatica a credere che lo stress e la pressione abbiano portato Kurt Cobain a spararsi. Preferiamo credere che il mondo sia ordinato e che dietro a tutto ciò ci sia una cospirazione.

1 agosto 2020

La morte di Brandon Lee

La storia del cinema è spesso funestata da eventi drammatici, e alle volte il destino gioca brutti scherzi come quando il figlio di un attore morto a trentatré anni in circostanze apparentemente misteriose perde la vita ucciso per errore sul set.

È questo quanto accaduto il 31 marzo del 1993, quando Brandon Lee, figlio della leggenda del cinema di arti marziali Bruce Lee, rimase ucciso a ventotto anni appena compiuti sul set di quello che sarebbe rimasto per sempre il suo ultimo film per un'assurda fatalità.


I fatti di base


Brandon Lee trascorse gli ultimi tre mesi della sua vita a Wilmington, in North Carolina, dove stava girando Il Corvo, che partì come film a basso budget ma negli anni e decenni seguenti diventò un cult anche a causa dei tragici fatti che avvennero durante le riprese. Dovendo girare un film che si svolgeva prevalentemente di notte, Brandon stava seguendo una routine piuttosto insolita, svegliandosi alle 16, lavorando tutta la sera e la notte e andando a dormire alle 9 del mattino.

Il 30 marzo del 1993 Brandon andò come di consueto alla palestra Fitness Today, che si trovava all'interno del centro commerciale Marketplace Mall di Wilmington. Le riprese per il film erano quasi complete e Brandon prevedeva di tornare a Los Angeles l'8 di aprile. Finito l'allenamento, l'attore si spostò ai Carolco Studios (oggi noti come EUE / Screen Gems Studios) per girare una delle ultime scene del film.

Intorno alle 00:30 del 31 marzo, il cast stava girando la scena dell'omicidio di Eric Draven, il protagonista del film che torna dai morti per vendicarsi dei propri assassini. Brandon, nei panni di Eric, avrebbe dovuto entrare in una stanza con in mano un sacco della spesa, nella stanza avrebbe trovato Funboy, interpretato da Michael Massee, che gli avrebbe sparato con un revolver calibro .44 uccidendolo. Nel sacco che Brandon teneva in mano era posizionata una piccola carica esplosiva che avrebbe dovuto simulare lo sparo.

Quando Brandon entrò nella stanza, Massee fece fuoco verso di lui da una distanza di circa tre metri con una pistola che avrebbe dovuto essere caricata a salve. Sulle prime nessuno dei presenti, in un numero imprecisato tra settantacinque e cento, si accorse di nulla; Brandon si era accasciato al suolo, aveva fatto esplodere la carica nel sacchetto e tutto sembrava procedere come previsto. Ma alla fine della ripresa l'attore non si rialzò e sotto di lui si estese un'ampia pozza di sangue.

Brandon Lee fu trasportato da un'ambulanza all'ospedale New Hanover Regional Medical Center di Wilmington dove i medici gli trovarono una ferita all'addome della dimensione di una moneta da un dollaro. Lee fu portato in sala operatoria poco dopo l'una di notte, l'operazione durò cinque ore dopo le quali fu portato in terapia intensiva. Ma Brandon Lee non si risvegliò mai e alle 13:04 fu dichiarato morto per emorragia interna.


La dinamica dell'incidente


L'incidente mortale accorso a Brandon Lee è frutto di una sfortunata quanto lunga catena di eventi. Alcune settimane prima la troupe del film acquistò in un negozio di pegni un lotto di proiettili .44. Trattandosi di proiettili attivi, uno dei responsabili decise di non lasciarli sul set e li conservò nel bagagliaio della propria auto per due settimane.

Per alcune scene del film servivano sia proiettili a salve sia proiettili inerti. Per risparmiare tempo i produttori decisero di creare entrambe le tipologie di proiettili disattivando quelli che avevano. Realizzarono le cariche a salve (blanks in inglese) riducendo la quantità di polvere da sparo fino a un quarto della capacità e togliendo l'ogiva. Per realizzare i proiettili inerti (dummy bullets) tolsero la polvere da sparo e disattivarono gli inneschi. Tuttavia per un semplice errore in almeno uno dei proiettili che avrebbero dovuto essere inerti l'innesco rimase attivo.

La troupe girò quindi la scena per la quale servivano i proiettili inerti, che prevedeva il primo piano di un caricatore durante uno sparo, e uno degli inneschi rimasti attivi diede la spinta sufficiente all'ogiva del proiettile affinché questa venisse sparata rimanendo incastrata nella canna del revolver così da incepparlo.

La pistola restò quindi inutilizzata per due settimane, fino al fatidico 31 marzo. Affinché l'effetto dello sparo di Funboy verso Draven fosse più drammatico, l'arma fu caricata con cariche a salve a pieno carico di polvere da sparo. E fu proprio una di queste a fare sì che l'ogiva rimasta incastrata venisse effettivamente sparata dalla pistola, raggiungendo all'addome Brandon Lee.


Game of Death: lo strano caso del film di Bruce Lee che predisse i fatti


Uno dei più celebri film del padre di Brandon, Bruce Lee, è il postumo Game of Death distribuito in Italia come L'ultimo combattimento di Chen aggiungendo un riferimento truffaldino al nome del protagonista di Dalla Cina con Furore con cui in realtà non ha alcun legame. Nel film Bruce Lee interpreta l'attore Billy Lo che si trova ad essere nel mirino di un gruppo di gangster che intende ucciderlo durante le riprese di un film. Uno dei gangster si intromette nella troupe e spara a Billy Lo con un proiettile vero anziché con uno caricato a salve, Billy sopravvive e decide di fingersi morto per poter sgominare la banda muovendosi inosservato. Fin qui le somiglianze con il caso di Brandon Lee sembrano sorprendenti.


In realtà il film del 1978 è un rimontaggio del lungometraggio originale scritto, diretto e prodotto proprio da Bruce Lee la cui trama era completamente diversa. Nell'originale, rimasto incompiuto e del quale sopravvivono circa quaranta minuti di girato, il protagonista è un artista marziale professionista che viene ricattato da una gang coreana che lo costringe a collaborare con loro rapendo suo fratello e sua sorella.

La trama scritta da Bruce Lee è quindi lontanissima da quanto occorso al figlio e in realtà anche le similitudini tra Game of Death del 1978 e la morte di Brandon sono piuttosto labili, perché le circostanze in cui è morto Brandon Lee sono talmente improbabili da essere praticamente impossibili da pianificare.

A distanza di quasi trent'anni, non ci sono più misteri nella morte di Brandon Lee, né complotti sotterranei o profezie: solo un'infausta catena di eventi mista a incuria e negligenza.



Fonti: